Passatempi musicali, una storia di Napoli

Passatempi musicali, una storia di Napoli

In risposta a eruzioni vulcaniche, terremoti, invasioni straniere e rivolte popolari con le conseguenti repressioni, la città di Napoli ha potuto sempre contare sulla sua incredibile capacità di produrre musica.

Una premessa obbligatoria riguarda la conformazione della società partenopea, tra le pochissime grandi città europee ad altissima densità di popolazione a mantenere storicamente inalterata (quantomeno fino al secondo dopoguerra) la sua fortissima componente contadina. Questo ha permesso la conservazione di pratiche e consuetudini fortemente popolari, “etniche”, influenzate soltanto in maniera superficiale dalla realtà urbana.

È a partire dal XIX secolo che questa propensione si riversa nella trascrizione dei più longevi canti popolari arrangiati secondo nuove influenze, adattamenti e imitazioni, che finiranno all’interno di un’importantissima raccolta pubblicata dall’editore e musicista Guglielmo Cottrau in fascicoli a partire dal 1827, dal titolo Passatempi musicali.

Se parliamo di canzone o musica napoletana, è bene chiarirlo, ci riferiamo però a fenomeni e manifestazioni artistiche molto variegate, dispiegate lungo una linea temporale centenaria ed espressione di situazioni socioculturali estremamente eterogenee.

Tralasciando la parte più remota di questo macro-insieme, quelle che nel 1500 vengono definite villanelle, e cioè “composizioni che tendono ad imitare i procedimenti formali e le strutture armoniche della musica popolare” attraverso la loro espressione dialettale, e il filone dell’opera buffa settecentesca, è a partire dal 1800 che l’abilità della città partenopea di creare musica prende definitivamente forma. E lo fa ovviamente sotto le nuove spinte romantiche, che allargano il campo di azione delle tradizioni popolari anche al ceto medio e agli stranieri riadattando la produzione figurativa e pittoresca e trascrivendo, come anticipato, i canti popolari secondo arrangiamenti degni di un rilevante interesse documentario. Un interesse che da Guglielmo Cottrau è poi passato al figlio Teodoro, il quale ha saputo proseguire la sua raccolta inserendo quelli che erano i testi di evidente estradizione civico-popolana all’interno di musiche che erano a loro volta rimodellate secondo un gusto tardo settecentesco prettamente romantico. Ecco quindi che l’antologia dei Cottrau si riempie di melodie popolari contaminate dallo stile della romanza da salotto, che era ricalcato sull’esempio del melodramma.

È da questo insieme che rinascono e assumono nuova forma le grandi canzoni classiche quali Fenesta vascia, Lu cardillu, Cicerenella, Michelemmà, La Palumella, Fenesta ca lucive e Lo Guarracino.

All’interno dei Passatempi musicali si possono ritrovare anche molti modelli che si rifanno alla tarantella urbana napoletana, già presente nella cultura Ottocentesca ma che arriva a noi nella sua prima forma attraverso la produzione di dischi incisi a Napoli nel 1908 da parte della Troupe Fattorusso, un gruppo di suonatori popolari della città.

Più o meno negli stessi anni, poi, si avvertiva la necessità di intestare alcune di queste tradizioni musicali a paternità illustri, ed è per questo che, ad esempio, Michelemmà venne attribuita a Salvator Rosa (con l’avallo di un falso documento compilato da Salvatore Di Giacomo), mentre Fenesta ca lucive finì per essere affidata a Vincenzo Bellini a causa di alcune affinità melodiche con la sua Sonnambula. Questo è dovuto soprattutto alla trasformazione di questa forma d’arte da espressione popolare a prodotto borghese avvenuta durante tutto il XIX secolo, come si evince tra l’altro dalla trascrizione di testi e musiche sulle strutture melodiche tipiche dell’opera.

Ma dal momento che è impossibile frenare le infinite spinte dal basso che questa città genera e offre da sempre, contemporaneamente a questa trasformazione “alta” della musica avviene anche un curioso fenomeno popolare: vengono prodotti numerosissimi fogli volanti (Copielle) riportanti i testi e le musiche delle canzoni popolari e semi-colte che vengono poi “venduti nelle vie, nelle piazze ma anche nelle botteghe dei librai di San Biagio”. A beneficiarne è anche il teatro popolare, che diventa un luogo in cui riportare sotto una nuova forma le canzoni tradizionali come accade, ad esempio, per Palummella zompa e vola, rivista dalla compagnia di Salvatore De Muto, “ultimo grande Pulcinella della tradizione”, all’interno di un disco distribuito al termine della sua carriera, negli anni ’50 del Novecento.

Facendo un passo indietro, si può invece dire che la prima canzone d’autore con una data storica precisa risulta essere Te voglio benne assaje, scritta su ritornello del '600 di anonimo dall’ottico Raffaele Sacco e dal musicista Filippo Campanella (anche se è stata erroneamente attribuita a Gaetano Donizetti) e presentata alla festa di Piedigrotta nel 1839. Un chiaro esempio, quindi, di come gli eventi popolari tradizionali rappresentassero un palcoscenico fondamentale per lanciare le canzoni del popolo.

Ma è grazie al lavoro di poeti e musicisti come, tra gli altri, Ferdinando Russo, Enrico De Leva, Mario Costa, Luigi Denza, Francesco Paolo Tosti, Salvatore Gambardella e, soprattutto, il già citato Salvatore Di Giacomo, che il dialetto napoletano arriva ai suoi massimi artistici divenendo la proiezione dell’immagine di un popolo che si attualizza attraverso un prodotto (la canzone). Un prodotto, quest’ultimo, che dall’alto arriva a pervadere tutte le classi sociali dell’intero Paese mediante modelli musicali e poetici altamente fruibili e alla portata di tutti. Purtroppo, con l’avvento della Grande Guerra e le sue ripercussioni sulla società, questa spinta creativa si è andata attenuando e si è affievolita in favore dei più recenti modelli della canzonetta italiana.

La capacità dei napoletani di prendere le sventure e trasformarle in espressione artistica si manifesta, ad esempio, durante la Seconda delle due guerre mondiali, dove lo scenario di una città devastata prende forma all’interno della famosa Tammurriata nera, un canto popolare tra i più noti.

La canzone prende il suo nome dalla tammorra, uno strumento musicale a percussione realizzato tradizionalmente con pelli di ovino tesa su un tamburo dove sono fissati a coppie dischi di metallo, che viene suonato “muovendo ritmicamente la mano e con l’altra colpendo la membrana” generando un suono usato, in alcune zone della regione, per accompagnare alcuni riti spirituali.

E non è l’unico strumento a denotare il genio artistico di questa splendida città. Come non citare il più rappresentativo (e, per questo, anche l’origine del pregiudizio più acceso in primis nei confronti di Napoli e, di rimando, anche di tutto il Paese) e cioè il mandolino? Questo strumento simile alla chitarra e al liuto risale all’antichità, ma si caratterizza a Napoli soprattutto nel Seicento, nel momento in cui la famosa Casa Vinaccia, storica famiglia di liutai, ne fa partire la produzione su larga scala con strumenti che si contraddistinguono dagli splendidi intarsi e particolari in avorio dei quali ne rimangono ancora molti esemplari. È però a partire dal XIX secolo che vive il suo momento migliore, quando si propaga per tutta la città e arriva a diventare addirittura uno strumento dell’alta borghesia e della nobiltà. Legenda vuole, ad esempio, che tra le sue più abili suonatrici si annoverasse addirittura la Regina Margherita.

In questa lista vogliamo citare anche il Putipù, realizzato originariamente con una pentola di coccio ricoperta di pelle di bovino nel cui centro veniva infilata un’asta di legno in grado di generare un suono simile ad un contrabbasso e lo Scetavajasse antesignano del moderno campanello per la servitù.

Insomma, come si può notare la città di Napoli e la musica popolare sono da sempre legati ad un filo doppio (o, in questo caso, ad una doppia corda), sintomo di una tradizione in grado di rispondere a ciò che gli accade con arte e leggerezza, senza mai scadere nella superficialità e contribuendo con le sue intuizioni a contaminare l’intero Paese e tutto il mondo circostante.

 

[1] https://library.weschool.com/lezione/la-canzone-napoletana-20224.html

[2] https://www.visitnaples.eu/napoletanita/racconti-di-napoli/canzoni-napoletane-tre-strumenti-musicali-di-unantica-tradizione

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